Le rinnovabili sono un business? Per chi?

Di Paolo Pietrogrande, Novembre 2017

L’articolo è stato pubblicato nel libro “Future Energy, Future Green” a cura di Maurizio Guandalini e Victor Uckmar edito da Mondadori.

Energia eolicaLa storia dell’energia che conosciamo è intimamente legata allo sviluppo industriale, che dalla possibilità di produrre forza motrice proprio là, dove erano disponibili materie prime e manovalanza, ha ridefinito la Geografia (e il benessere) delle nazioni: il carbone prima, il petrolio poi hanno sostenuto lo sviluppo industriale dei due secoli appena conclusi. Non che l’energia non fosse utilizzata anche in epoche più remote, dalla scoperta di come accendere un falò, all’utilizzo dei corsi d’acqua da parte dei mugnai, o dei mulini a vento per bonificare le terre olandesi e irrigare il far west. Ma, proprio perché legata a corsi d’acqua e zone particolarmente ventose, le attività produttive che utilizzavano energia erano ubicate là dove la risorsa energetica era presente, non dove era più efficace per il ciclo produttivo.

Alla luce del vorticoso sviluppo della produzione elettrica da fonti rinnovabili, avvenuto negli ultimi 20 anni, è proprio la diversa ubicazione geografica a fornirci spunti interessanti per capire come l’industria delle rinnovabili sia destinata a svilupparsi, chi ne potrà fare un business, e a quali condizioni.

Andiamo per gradi: nei passati quattro decenni c’è stata una trasformazione tecnologica strisciante, che essendo stata fino a poco fa invisibile al grande pubblico, non è entrata nel dibattito sociale così come invece sono percepiti lo sviluppo delle telecomunicazioni e dell’informatica.

Mio malgrado, sono stato testimone di questa trasformazione tecnologica “strisciante”: ho iniziato a lavorare negli anni ottanta in California, occupandomi di energie alternative, termine che oggi fa sorridere. Allora si faceva fronte alla crescente domanda di energia elettrica che sosteneva lo sviluppo (industriale) realizzando grandi, grandissime centrali termoelettriche, alimentate da carbone, olio combustibile o fissione nucleare. Una nuova centrale, per realizzare le necessarie economie di scala, aveva una taglia tipica da 1,200MW. L’ubicazione di queste centrali era forzatamente nei pressi di grandi laghi, fiumi o sul mare, perché per raffreddare i condensatori delle turbine fino a temperature accettabili sono necessarie grandissime quantità di acqua. Le energie alternative allora includevano la gassificazione del carbone (per ridurre le emissioni), lo sfruttamento del biogas che si produceva spontaneamente delle discariche di rifiuti e negli impianti di depurazione delle fognature. Di eolico e fotovoltaico se ne parlava appena, la geotermia era una curiosità scientifica che alimentava il turismo di scolaresche a Larderello, dove si visitavano i soffioni boraciferi. Il resto erano distrazioni.

Avevo smesso da poco di fare l’ingegnere quando mi capitò di occuparmi di pianificazione strategica per General Electric, familiarmente chiamata GE, il leader mondiale di macchinari per la generazione elettrica. L’azienda era stata creata da un prolifico inventore americano, Thomas Alva Edison, il quale, avendo sviluppato contestualmente la lampadina per illuminare e la dinamo per farla funzionare, aveva bisogno di un’impresa economica che realizzasse le sue invenzioni in scala industriale e ne promuovesse l’utilizzo tra i suoi coevi (fino ad allora abituati al buio). Quando ci entrai, GE era il principale produttore al mondo di turbine a vapore, il cuore delle centrali a carbone e delle centrali nucleari. Attività marginale di GE era la produzione di turbine a gas, la cui tecnologia deriva da quella dei motori a reazione; con la crescita del trasporto aereo, e il successo dei propulsori GE nell’industria, i progressi acquisiti dalla produzione in serie dei motori per aereo (settore del quale GE era leader assieme a Rolls Royce) aveva reso le turbine a gas più economiche e più efficienti, ma la loro taglia rimaneva simile a quella dei motori d’aereo, dai 10 a 60 MW, nulla rispetto ai 1,200 MW delle tradizionali turbine a vapore.

Ricordo che nei piani strategici sullo sviluppo del mercato cui partecipai, si prevedeva una crescita delle vendite di turbine a vapore ed un’accelerazione delle vendite delle piccole turbine a gas, che potevano essere installate anche in assenza di grandi risorse d’acqua, e in impianti più piccoli, alla portata di nuovi produttori indipendenti, distinti dai grandi enti elettrici. Ricordo anche che, tre anni dopo, tra lo stupore generale, constatammo che gli ordini di turbine a gas avevano addirittura superato quelli delle tradizionali turbine a vapore.

Proprio quell’anno, a metà anni ’90 nei piani strategici si accennava all’importanza dei motori a combustione interna per la “generazione distribuita”, ovvero per quei mercati liberalizzati dove utilizzatori industriali potevano ricorrere all’autogenerazione in macchine da meno di 1 MW. Si parlava in quei piani anche del possibile sviluppo di turbine eoliche, utilizzabili in località remote, dove realizzare le infrastrutture di connessione elettrica sarebbe stato troppo oneroso: giocattoli da 10 kW. Contrastai con veemenza le timide proposte di miei collaboratori di considerare l’acquisizione di qualche pioniere di questa tecnologia, considerandola poco più che una distrazione intellettuale.

Se avessi prestato attenzione ai segnali deboli, avrei capito che stava cambiando la taglia degli impianti, da 1,200 MW a 60 MW e anche meno, che le centrali elettriche si sarebbero spostate dai grandi corsi d’acqua ai centri industriali nell’entroterra, che sarebbero cambiate le tipologie dei produttori di energia, sempre più distinti dalle società elettriche, sempre più’ privati e piccoli, locali…

La regola del contrappasso ha voluto che mesi dopo mi trovassi in Enel, allora Ente di Stato, col mandato di creare una divisione fonti rinnovabili. Per spirito di sopravvivenza fui costretto a ricercare le radici intellettuali per trasformare la cenerentola della generazione elettrica in una funzione aziendale in cui i collaboratori non avessero la sensazione di essere stati forzati a salire in una scialuppa malconcia mentre i colleghi dell’Enel riprendevano il largo (la privatizzazione e la quotazione in borsa) a bordo del transatlantico.

Ci ha dato forza constatare che le fonti rinnovabili consentivano lo sviluppo sostenibile, e che noi nella zattera in realtà potevamo contribuire ad un futuro più sano, più verde, per i nostri figli. È stato questo che ha convertito i guardiadighe dell’Enel Green Power in conferenzieri nelle scuole elementari dei piccoli borghi di montagna (le dighe, quasi sempre stanno in montagna), i geologi di Larderello in apostoli dell’energia pulita, i meccanici dei centri di ricerca dell’ISMES in sviluppatori di siti eolici. Peraltro la zattera, una volta riparate le falle, si stava rivelando la più grande azienda al mondo in questo settore, e i suoi occupanti scoprirono di essere depositari di know how unico e di grande valore.

Scoprimmo che le vecchie centraline idroelettriche costruite dai nostri nonni non solo erano bellissime da vedere, curate nei minimi particolari, ma con l’attento ascolto di chi per decenni aveva osservato il comportamento dei fiumi, era possibile sviluppare logiche di controllo ed esercizio molto avanzate, che facevano recuperare energia altrimenti sprecata; scoprimmo anche, guardando ai pionieri dell’allora nascente mercato, che le nuove rinnovabili, eolico e fotovoltaico avevano molte più prospettive se si usciva dalla logica di sperimentazioni di vetrina, per applicare a queste tecnologie le pratiche consolidate dell’industria matura. Scoprimmo che chi si era affacciato al mercato con umiltà aveva saputo cogliere meglio le prospettive della grande società elettrica, arrogante nei pregiudizi e incapace di ascoltare. Costrinsi incalliti ingegneri ad ascoltare le soluzioni tecniche ed operative ideate da saggi imprenditori con la laurea in giurisprudenza in tasca. Scoprimmo che era possibile collaborare con gli architetti del paesaggio per rendere le pale eoliche parte integrante del territorio, le centrali geotermiche meno imponenti, le condotte forzate più aggraziate…

CentraleIn pochi anni l’industria delle rinnovabili ha avuto così tanto sviluppo, che oggi nel mondo si installano più impianti da fonti rinnovabili, che turbine a vapore. I soli pannelli fotovoltaici installati in Italia, sui nostri tetti o in terreni agricoli marginali, equivalgono a 15 centrali nucleari. Oggi gran parte del valore in borsa della grande Enel deriva da Enel Green Power, la zattera di 19 anni prima.

Questa trasformazione delle tecnologie di generazione implica altri cambiamenti ancora più’ rilevanti: gli attori sono mutati, la dispersione è mutata, il ruoli si sono invertiti; l’energia non è più considerata infrastruttura, le reti sono rimaste infrastruttura, il resto è un mercato fluido, sempre più liberalizzato, dai confini sempre meno definiti. Andiamo per ordine e facciamo emergere alcune peculiarità che possono tracciare nuovi spunti per preparare i nostri nipoti.

In Italia dal 2010 al 2016 sono stati messi in esercizio 17,000 MW di impianti solari fotovoltaici, 4,000 MW di eolici, 2,000 MW tra idroelettrici, geotermico e biogas/biomasse: quasi il 20% della capacità totale installata nel Paese. Pochissimi dei nuovi impianti fotovoltaici ed eolici sono di proprietà di Enel o delle 4 grandi municipalizzate tradizionali. Il 61% è di produttori indipendenti specializzati, il 21% di piccole e medie aziende e 3,400 MW sono di proprietà di famiglie, persone, privati cittadini. In Italia 500,000 famiglie sono produttori di energia, che utilizzano in casa o rivendono alle società elettriche. Questo equivale attorno a 1.2 milioni di schede elettorali direttamente coinvolte e molte di più potenzialmente sensibilizzabili.

Perfino i programmi elettrorali mettono in agenda l’aspirazione ad una ulteriore liberalizzazione che consenta ai cittadini che hanno i pannelli solari sul loro tetto di valorizzare al meglio l’energia prodotta in eccesso rispetto ai consumi domestici: abbastanza per scardinare il ruolo stesso dei tradizionali fornitori energetici, qualora non si adeguassero rapidamente. Anche se per molti consumatori questo aspetto genera ancora confusione, la rete elettrica è già diventata un servizio separato rispetto a chi fornisce il kWh. La resistenza degli italiani ad avvalersi del mercato libero è un chiaro indizio che la separazione tra fornitore del cavo in rame e fornitore del kWh non è ancora entrata nella nostra quotidianità, ma è questione di tempo, succederà presto; proprio la diffusione degli impianti solari domestici sta dando impulso alla presa di coscienza, specie ora che sono disponibili batterie a prezzi così competitivi da consentire, almeno teoricamente, di distaccarsi dalla rete elettrica mantenendo la stessa qualità di vita.

Dunque le fonti rinnovabili, il solare in particolare, trasformano l’utente in cittadino consapevole. Ed evidenziano non solo i benefici dell’autonomia energetica, ma anche le implicazioni in termini di investimento, valore dell’infrastruttura e oneri per gestirla. Nulla viene gratis, ne stiamo prendendo coscienza, e saremo quindi tutti più pronti a valutare con responsabilità l’evoluzione normativa proposta nei programmi elettorali.

Le fonti rinnovabili hanno anche generato un’evoluzione nelle competenze a livello diffuso; nei piccoli centri, fino a pochi anni fa, l’operaio dell’Enel era uno dei pochi tecnici qualificati, perché sottoposto a continuo aggiornamento professionale. Ora elettricisti e idraulici hanno dovuto imparare a progettare e realizzare impianti fotovoltaici sui tetti e sistemi di riscaldamento domestico col solare termico, tutte applicazioni che richiedono competenze e strumenti non banali: grazie alla diffusione di queste tecnologie si sta quindi diffondendo tra i tecnici una cultura avanzata la cui ricaduta implica efficienza energetica nelle nostre case, impiantistica intelligente, prestazioni migliori. Insomma, il tecnico dell’Enel si trova finalmente in nutrita compagnia.

Questo aspetto che sembra marginale, ha invece notevoli implicazioni anche sull’occupazione: rispetto ad una centrale nucleare, la generazione diffusa, come quella solare, richiede maggiore impegno di progettisti, installatori e manutentori per kW installato o per kWh prodotto. La scuola deve formare più “ingegneri” domestici e meno ingegneri nucleari. Perfino negli Stati Uniti, Paese retrogrado da un punto di vista energetico, le fonti rinnovabili impiegano già più addetti rispetto al settore dell’estrazione e utilizzo del carbone. A fianco alle professioni tradizionali, hanno un ruolo di rilievo architetti del paesaggio, esperti di geolocalizzazione, sociologi, archeologi, biologi marini, metereologi e geologi: lo sviluppo di iniziative con fonti rinnovabili è per sua natura più inclusivo, specie se confrontato con lo sviluppo di grandi centrali a carbone o nucleare, che si impone al territorio e che è tipicamente caratterizzato dallo scontro sociale.

Purtroppo questi aspetti sono stati male compresi da gran parte di quei cacciatori d’incentivi sbarcati in forze nel mercato energetico, in cerca di speculazioni rapide, facili e, specialmente, redditizie. Fondi d’investimento e istituti di credito che hanno allegramente finanziato la realizzazione di impianti solari ed eolici con l’aspettativa che, una volta messi in esercizio si comportassero come una sorta di bancomat, senza particolari cure, generando per decine d’anni dividendi privi di rischi.

I generosi incentivi promessi hanno fatto illudere i cacciatori d’incentivi, i quali sottovalutano gli aspetti industriali della gestione operativa mentre si concentrano sulla ricerca delle leve finanziarie ottimali. L’esperienza insegna che le imprese sostenibili portano i frutti della continua cura. La tecnologia e le normative si evolvono, portando (purtroppo soventi) cambiamenti regolatori ma fanno anche emergere opportunità da cogliere. Chi gestisce gli asset con il “bank model” alla mano, accontentandosi di raggiungere le aspettative di progetto, si espone agli inevitabili rischi normativi e tecnici e non raccoglie le opportunità di miglioramento che nuove tecnologie e esperienza cumulata apportano.

Proprio questa discrasia tra investitori neofiti (i cacciatori di incentivi) e l’esigenza/opportunità di prendersi cura degli impianti realizzati ha generato diffusa frustrazione dei primi che si lamentano di riduzioni retroattive degli incentivi, eccessiva burocrazia nella gestione degli incentivi, minore produzione degli impianti. Per inquadrare il problema porto una recente esperienza personale: ci è capitato di prendere in carico un portafoglio di centrali fotovoltaiche in Puglia di proprietà di un investitore nordeuropeo, che a detta dello stesso era soddisfatto della gestione, avendo dati di produzione in linea con quanto previsto dal modello finanziario che era stato utilizzato per decidere di investire; dopo 6 mesi, con un vincolo rigido di non apportare miglioramenti che comportassero più di 18 mesi di ritorno sull’investimento, gli impianti sono stati messi in condizione di produrre il 12% in più di energia e con il 53% in meno di costi. Come?

Con (nell’ordine) il buon senso del padre di famiglia, la pazienza del contadino e le competenze dell’ingegnere. Un impianto fotovoltaico consiste di migliaia di pannelli (per fare un MW ne servono 4000) montati su dei cavalletti, di un convertitore di energia (l’inverter), del sistema di diagnostica e controllo e delle connessioni alla rete elettrica. La manutenzione consiste nel verificare il funzionamento, effettuare alcune prove di funzionamento, pulire i pannelli che si fossero sporcati e tagliare l’erba per evitare che crescendo eccessivamente faccia ombra ai pannelli stessi.

Il taglio dell’erba in 3-4 ettari di terreno comporta fare lo slalom tra pannelli, cavi e cabine di controllo, evitando accuratamente di fare polvere o schizzare sassolini che potrebbero danneggiare i pannelli. Questa operazione andrebbe condotta da personale specializzato con mezzi adeguati. Ma esistono

delle alternative più efficienti, sia in termini di qualità del risultato finale che di economicità di costo: le pecore che con grande zelo divorano l’erba, senza schizzare sassi o lasciare ciuffi nelle aree più difficili da raggiungere… Il fatto che gli impianti siano recintati e sorvegliati da telecamere a raggi infrarossi costituisce un’ulteriore sinergia particolarmente appetibile per gli allevatori che possono così lasciare incustodito il gregge per qualche ora.

AllevatoreDifficilmente un banchiere d’affari con scrivania nella city di Londra perderebbe tempo a concordare il servizio di taglio dell’erba (e negoziare le relative garanzie) con il signor Gennaro Esposito, allevatore di Afragola, ma questa iniziativa può valere decine di migliaia di euro di risparmio per gli azionisti accorti. Senza considerare i benefici indiretti di barattare la cortesia per qualche forma di pecorino…

D’altro canto la pazienza del contadino equivale a riposizionare i 4000 pannelli su stringhe omogenee consente di massimizzare la resa energetica di ogni stringa. Anche questo accorgimento risulta in più energia prodotta, ma richiede un lavoro certosino di diagnostica e ricollocamento. Se affidato alla General Electric probabilmente il beneficio nei 20 anni di vita economica non ripagherebbe i costi dell’intervento, ma se compiuto progressivamente quando il manutentore comunque si reca negli impianti, dedicandovi qualche ora al mese, il beneficio vale la spesa. In questo caso la tecnologia aiuta: le termocamere geolocalizzate che permettono di fare efficientemente la fase diagnostica oggi sono disponibili e costano poche centinaia di euro; servono però ingegneri competenti, capaci di impostare la diagnostica, l’analisi e la programmazione degli interventi in maniera integrata.

Sostituire l’inverter con uno più recente con prestazioni migliori richiede impegno di ingegneri in grado di calcolare il beneficio, di negoziare le condizioni, di valutare le effettive prestazioni ottenibili nel sito specifico e di formalizzare la sostituzione agli enti regolatori. Purtroppo l’Italia è piena di impianti fotovoltaici e mini eolici realizzati con grande dispendio di risorse ma con eccessiva ingenuità: pannelli esposti a Nord, sale inverter progettate da muratori, senza tener conto dell’impatto della temperatura sull’efficienza di conversione. Ho personalmente visto container roventi dotati di condizionatori domestici che convogliano generosamente l’aria raffrescata verso gli estrattori d’aria, lasciando gli inverter esposti al caldo della parete di calcestruzzo. Oppure impianti progettati all’ombra di alberi secolari, minieolici al riparo di cabine elettriche, centraline idroelettriche con condotte forzate di diametro insufficiente…

Purtroppo in Italia anziché valorizzare la professione dell’ingegnere preferiamo, per tradizione decennale, seguire bizantine norme di progettazione sviluppate sulla base delle imposizioni burocratiche stabilite da ottusi funzionari ministeriali, i quali, non avendo mai lavorato in aziende esposte alla concorrenza e ignorando cosa significhi ottimizzare da un punto di vista tecnico economico i progetti, non sanno tener conto dei continui adeguamenti tecnologici e dell’evoluzione commerciale dei componenti. Ho avuto molte occasioni di verificare la crassa ignoranza dei nostri ottusi funzionari, specie quando, gestendo aziende che le fonti rinnovabili le realizzano su basi competitive all’estero, ho avuto modo di constatare l’abisso che c’è nel modo di lavorare degli ingegneri progettisti: all’estero l’attenzione maniacale all’ottimizzazione delle prestazioni, in Italia la meticolosa adesione alle prescrizioni di legge. Il danno che la burocrazia ha fatto alla categoria degli ingegneri purtroppo durerà ancora a lungo.

Basti pensare che in Italia nel 2017 si progettano gli impianti fotovoltaici con le stesse caratteristiche del 2007. Nel frattempo il costo dei pannelli è sceso da €5/Watt a 50 centesimi, consentendo di rivoluzionare la logica di progettazione, favorendo (laddove ammesso dalle norme) il profilo di carico degli impianti, anziché la massima potenza producibile a mezzo giorno del giorno più assolato dell’anno, sempre che sia ben ventilato e fresco.

Se non vi fossero i vincoli bizantini imposti in Italia da questi burocrati incapaci di valutare le potenzialità economiche della tecnologia, si potrebbero sostituire i sostegni dei pannelli con meccanismi in grado di seguire l’esposizione del sole (i cosidetti trackers) e si potrebbe incrementare la potenza elettrica dei pannelli installati a parità di linea di connessione, permettendo di avere una curva di produzione elettrica più piatta, quindi più compatibile con la domanda di energia. Non mi riferisco a pratiche particolarmente innovative: in tutto il mondo dove non ci sono incentivi, per assicurare la massima competitività, gli impianti vengono realizzati in questa maniera, e la capacità di sviluppare analisi ingegneristiche di costo beneficio diventa essenziale per assicurare la competitività dell’energia prodotta.

Grazie alla sua apparente semplicità impiantistica, il fotovoltaico meglio evidenzia le diverse modalità di svolgere la funzione di proprietario di un progetto, ma anche le altre fonti rinnovabili presentano peculiarità simili: per far sì che una turbina eolica produca il massimo possibile dell’energia, ingegneri preparati, attraverso analisi diagnostiche possono limitare gli interventi compiuti in emergenza, possono proporre modifiche al sistema di controllo che riduca le fermate tecniche, possono ottimizzare l’angolazione delle pale durante raffiche di intensità straordinaria…

Una caratteristica comune a tutte le tecnologie rinnovabili c’è: la rilevanza del territorio.
Una grande moderna centrale a carbone da 2,000MW, con tutte le infrastrutture di rispetto, occupa 70- 100 ettari, incluse le opere accessorie e di rispetto: 350-400 metri quadri per MW. Un impianto solare, anche grande, impiega 3-4 ettari per MW, ovvero 100 volte più territorio, ed essendo modulare, la stessa capacità di una centrale nucleare si disperde in un migliaio di siti, coinvolgendo centinaia di amministrazioni comunali. La dispersione non rappresenta solo uno svantaggio, come potrebbe apparire analizzando le economie di scala: insistere su realtà diverse implica molteplicità di connessioni, che a loro volta assicurano una ridondanza delle infrastrutture.

Gli impianti diventano parte integrante delle comunità dove insistono: i laghi artificiali che alimentano le centrali idroelettriche possono ospitare attività come la pesca sportiva, le gare di motonautica o manifestazioni culturali, con importanti ricadute per l’economia delle comunità limitrofe. Le strade di accesso agli impianti eolici realizzati sui dorsi degli appennini diventano percorsi di cicloturismo e sentieri per ammirare il panorama da luoghi precedentemente inaccessibili. Le centrali a biomassa o a biogas che sfruttano i cascami dell’industria alimentare consentono di smaltire in sicurezza la paglia di cereali e i reflui degli allevamenti intensivi, risolvendo i rischi associati all’autocombustione o allo sversamento nei bacini imbriferi.

Un episodio che più di altri spiega l’intima connessione del territorio con le rinnovabili ha come protagonista una nostra collega che ne fu la paziente promotrice: l’azienda della quale ci occupavamo all’epoca aveva intenzione di sviluppare alcuni impianti fotovoltaici sul territorio di un comune pugliese definito dalla stampa il paese con maggiore criminalità della Regione, con altissimi livelli di disoccupazione giovanile; in largo anticipo rispetto agli accordi coi proprietari terrieri e la richiesta dei permessi, incontrammo le associazioni che si occupavano di lotta all’illegalità e di assistenza sociale, e nacque l’idea di formare giovani diplomati e neolaureati come installatori e gestori di impianti, costituendoli poi in cooperative. La formazione iniziò in un clima di scetticismo, ma man mano che l’azienda e i giovani si conoscevano, crebbe il senso di obiettivo comune, non solo dei partecipanti, ma di tutto il tessuto sociale, amministrazione comunale inclusa.

Festa campestre in prossimità dell’impianto eolico di MontefalconeDurante la fase di costruzione i fornitori furono deliziati di trovare localmente manodopera qualificata, nella successiva fase di esercizio (che durerà decenni) le cooperative hanno mantenuto un vantaggio competitivo incredibile. Oggi, con un mercato della manutenzione assai vasto in quell’area, le cooperative nate dall’idea originale sono ancora una delle realtà economiche di maggior successo, e danno lavoro a decine di giovani. Gli impianti realizzati sono ancora oggi i “loro” impianti, nessuno si avvicina senza che sia attentamente valutato dall’intero paese, a partire dalle nonne dei giovani. Tutte le possibili innovazioni e miglioramenti sono proposti su quegli impianti prima che altrove. Quanto a loro, i giovani, molti hanno poi seguito il mercato, e ora lavorano in giro per il mondo, portando le loro competenze.

Questi aspetti di interazione con il territorio creano sinergie e senso di appartenenza. Un buon rapporto con la comunità locale fa sì che sia l’intera popolazione a “metter un occhio” sulla centrale, segnalando anomalie, scoraggiando tentativi di intrusione… Perché questa relazione di buon vicinato sia profonda non è necessario dispensare contributi economici: il legame si crea quando, in previsione di un investimento importante si mette il territorio in grado di predisporre quei servizi necessari alla costruzione (recettività alberghiera, mense, tecnici già formati…), si pianificano congiuntamente quelle migliorie alle vie di comunicazione necessarie per far transitare i macchinari, si condivide la rete di telecomunicazione necessaria alla conduzione degli impianti. Alcune delle centrali idroelettriche italiane sono state costruite con una grande attenzione architettonica, fin nei minimi dettagli e, disponendo di ampli spazi (difficilmente reperibili nelle piccole comunità) possono essere messe a disposizione per eventi pubblici. Il museo di geotermia di Larderello ha decine di migliaia di visitatori all’anno, con una considerevole ricaduta economica per il territorio circostante. Similmente alcune antiche centrali idroelettriche, aperte alle visite.

Il solito banchiere, col suo gessato fumo di Londra, difficilmente saprà coltivare questo tipo di relazioni. E questo è l’aspetto che a mio giudizio più ci può aiutare a capire se la generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili possa continuare ad essere un business in Italia, e per quale tipo di imprenditore.

Partiamo dalla considerazione iniziale: Quaranta anni fa i nuovi investimenti di generazione elettrica venivano fatti dai grandi enti elettrici e riguardavano centrali della taglia di 1,200MW o più, stabiliti a livello nazionale sulla base di previsioni dell’aumento della domanda. Trent’anni fa una tipologia diversa di imprese, specializzate nella generazione, hanno realizzato investimenti di taglia più piccola, 50- 200MW, vicini ai centri industriali, assoggettati a regimi tariffari incentivati (il cosiddetto CIP6).

20 anni fa imprenditori più piccoli, favoriti da regime tariffario incentivato e supportati da fondi di investimento stranieri, hanno sviluppato centrali eoliche di taglia ancora più piccola, 10-30MW, prevalentemente ubicate in zone collinari non coltivate. Sette anni fa speculatori in gran parte stranieri, attratti da generosi incentivi, hanno investito in maniera disordinata ed affrettata in centrali fotovoltaiche di taglia media 1MW, prevalentemente localizzate in zone agricole abbandonate. Negli ultimi anni, piccoli imprenditori locali stanno realizzando impianti minieolici da 60kW e continuano a sfruttare i tetti esistenti per aggiungere pannelli fotovoltaici da 250W l’uno. In 40 anni di è passati da 1,200,000 a 0.25kW, da grandi centrali sul mare, alla campagna di famiglia dietro casa, dall’ente di stato all’impresa agricola.

Perfino il pannello solare montato a dorso di cammello per alimentare il frigo porta vaccini è un indizio di un trend: piccolo è bello, almeno per le rinnovabili. E rende, perché il cammello costa assai meno di un elicottero per consegnare le medicine ad un piccolo villaggio del Sahara.

Trasporto di vaccini Sono convinto che il banchiere con il suo palmare ultra sottile stenterà a riconoscere le nuove opportunità, ed essendo ancora troppo impegnato nel ricercare le soluzioni bancarie agli scostamenti dei suoi impianti, lamenterà l’inaffidabilità del sistema Paese, l’incompetenza degli operatori a contratto, le lentezze del sistema giudiziario che ancora non riconosce e sanziona i soprusi del regolatore, che pur esistono e sono a tutti evidenti. E non credo che avrà la simpatia dei risparmiatori che a lui avevano affidato i suoi risparmi.

Rimarranno, finalmente, gli operatori veri, quelli per i quali la tecnologia serve per divenire sempre più competitivi, per esercire al meglio gli impianti, per i quali le comunità locali sono il principale alleato, le risorse economiche non sono legate a complicati contratti non-recourse, l’eccellenza operativa si conquista progressivamente ascoltando il fiume, riconoscendo il microclima, intuendo l’umidità della paglia, capendo che a volte una pecora lavora meglio di un trattore e che mettere a disposizione gli impianti per i cittadini ha un payback superiore al nuovo smartphone del capo azienda. Operatori che non sono spaventati dal “piccolo è bello”, ma che sanno motivare una rete dispersa sul territorio, valorizzando risorse e talenti dove sono. Un modello di business sostenibile. Non necessariamente riservato a piccole aziende locali, ma certamente in cui si deve saper lavorare a rete, con forte delega sul territorio: i gestori avanzati delle reti tecnologiche che hanno conservato in casa le competenze, ovvero in Italia Enel, Iren, A2A e Hera, e le grandi aziende industriali con forte tradizione operativa.

Non è un caso che grandi storiche aziende industriali abituate a essere cittadini del territorio abbiano convertito il loro core business alla generazione elettrica da fonti rinnovabili: sono moderni produttori di energia pulita ERG che proviene dalla raffinazione e distribuzione del petrolio e il gruppo Falck, storico produttore di acciaio. Anche questo tipo di operatori saranno il veicolo per una trasformazione che è già in atto perché sono in grado di affrontare il settore con logiche e attenzione industriale, e con la sensibilità per far emergere le radici fondanti del successo.

Già, chi sa perché, ma da vecchio brontolone nel settore, ho proprio l’intuizione che finalmente il termine “sostenibile” andrà a permeare non solo gli staff “di vetrina” delle aziende, ma anche le stanze dei bottoni e i camioncini dei tecnici.

TurbinaCi sarà spazio per tecnologie italiane? Perché no. I geologi Italiani hanno sviluppato le tecnologie più raffinate per esplorare i giacimenti geotermici in giro per il mondo, i pannelli fotovoltaici più avanzati al mondo utilizzano macchinari italiani per essere prodotti, l’elettronica di potenza più competitiva è progettata e prodotta in Italia, nel settore del piccolo eolico gli aereogeneratori heavy duty più raffinati sono progettati e prodotti in Italia… Il fatto che si tratti di marchi sconosciuti al grande pubblico, o che siano parte di grandi gruppi multinazionali non ci deve rattristare, l’importante è dove risiede l’intelligenza per rinnovare e la competenza per assicurare successo sostenibile.

Sapremo esportare le peculiarità delle rinnovabili del nostro Paese all’estero? Da noi, per conformità del territorio, per la frammentazione della proprietà e per le caratteristiche orografiche, “piccolo è bello”. Parafrasando Steve Jobs, per le rinnovabili secondo me dovrebbe valere un invito: stay small, stay local, stay focused, use your brain before your wallet!

Le rinnovabili nel mondo dovranno essere “piccole” per sfruttare le connessioni esistenti in media tensione, per adeguarsi progressivamente alla crescita di domanda, essere cittadine del territorio per coltivare le risorse dove sono, richiedono attenzione e competenze prima ancora che capitali. Dunque, noi Italiani abbiamo un vantaggio competitivo, l’esperienza di pensare e realizzare progetti piccoli, valorizzando il territorio e gestendoli con attenzione, spetta a tutti noi valorizzare questi aspetti e darci da fare per privilegiare l’intelligenza.

Speriamo che anche questi aspetti della nostra cultura, liberati dalla cieca sovrastruttura burocratica che opprime il settore in casa nostra, possano valorizzare quei talenti che si fondano sulla sensibilità del bello, sull’attenzione per il piccolo e sul rispetto per le radici storiche del territorio. Architetti, sociologi, archeologi, progettisti del paesaggio formati in Italia hanno molto da dire al business dell’energia globale.

E non sfasciamoci la testa se abbiamo perso un marchio visibile, Thomas Alva Edison ha saputo pensare in grande, ma erano altri tempi, quello che conta ora, è convertire la sostenibilità in ricchezza per le future generazioni, e se saremo accorti, ci riusciremo, parola di vecchio brontolone.

Paolo Pietrogrande
Managing Partner, Netplan Management Consulting, LLC

Copyright delle foto
– Centrale eolica di Buddusò, provincia di Olbia, di proprietà di Falck Renewables, foto fornita dall’azienda
– Centrale Idroelettrica di Farneta, Emilia, di proprietà di Enel, foto tratta dal libro di cui sono autore (Pietrogrande, Masullo, energia verde per un Paese rinnovabile, 2° edizione, 2007, Muzio editore)
– Allevatore di ovini con la capretta impiegata per il taglio dell’erba nella centrale fotovoltaica di Serre Persano, di proprietà di Enel Green Power, foto di proprietà dell’autore e utilizzata nel libro di cui sono autore (Pietrogrande, Masullo, energia verde per un Paese rinnovabile, 2° edizione, 2007, Muzio editore)
– Trasporto di vaccini mediante frigoriferi alimentati dal pannello fotovoltaico montati sul dorso del cammello, foto tratta dal libro di cui sono autore (Pietrogrande, Masullo, energia verde per un Paese rinnovabile, 2° edizione, 2007, Muzio editore)
– Festa campestre in prossimità dell’impianto eolico di Montefalcone di proprietà di Italian Vento Power Corporation, foto concessa dall’azienda e già utilizzata nel libro di cui sono autore (Pietrogrande, Masullo, energia verde per un Paese rinnovabile, 2° edizione, 2007, Muzio editore
– Turbina heavy duty minieolica in esercizio in provincia di Agrigento, di fabbricazione Italiana, foto concessa dal costruttore, Ergycom